Attualità

L’installatore in tribunale: il sindacato della videosorveglianza

Attenzione ai luoghi di installazione delle videocamere. Ancor di più se siamo in presenza di lavoratori: il tacito assenso non è sufficiente per mettervi al riparo dalle contestazioni

Ritorna a farsi sentire il complesso quanto sempre attuale tema della videosorveglianza, con particolare attenzione ai profili in tema di privacy e trattamento per immagini dei dati personali. Materia questa nella quale l’installatore riveste un ruolo di primaria rilevanza, posto che spesso è proprio lui a porre in opera gli impianti di ripresa e registrazione – tanto è che sulle pagine di questo Giornale si sono susseguiti numerosi articoli volti a descrivere la disciplina normativa che sul tema appare in costante evoluzione. La materia è ovviamente al centro dell’attenzione non solo per l’ampia diffusione di tali impianti, ma anche – e soprattutto – per la recente entrata in applicazione del Reg. UE 2016_679 (il “GDPR”) e l’adeguamento della normativa nazionale a tali nuove previsioni, fatti questi che hanno reso di importanza centrale anche per il pubblico indistinto le tematiche della protezione dei dati personali delle persone fisiche.

Una delle più importanti problematicità sul tema è rappresentata dall’installazione di impianti di videosorveglianza in contesti lavorativi – ovvero in situazioni nelle quali l’impianto può contribuire direttamente od indirettamente al controllo a distanza dei dipendenti. Un tema estremamente delicato, in quanto alla tutela della privacy del lavoratore si aggiungono le specifiche disposizioni normative in materia (prima tra tutte, l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori – L. 300/1970, per come riformato dal Jobs Act e dai relativi decreti di attuazione). Il tema è stato oggetto di un’importante quanto recentissima pronuncia della Corte di Cassazione, la quale ha delineato alcuni principi fondamentali in termini di liceità dell’installazione di tali impianti, con particolare riferimento all’eventuale consenso dei lavoratori.

Videosorveglianza e lavoratori

Il titolare di un’attività di ristorazione nel caso di specie una gelateria, decide di installare alcune telecamere in vari punti del proprio negozio, tutte connesse ad uno schermo LCD e a un apparato informatico, in modo tale da avere il controllo di tutti i luoghi di lavoro dove i dipendenti svolgono le mansioni loro attribuite e potere conseguentemente effettuare una forma di controllo a distanza. Tale scelta non dipende da semplice “curiosità” del datore di lavoro: nel locale si erano infatti verificati spiacevoli episodi tra cui l’aggressione ad una dipendente da parte di avventori ubriachi (esigenze di sicurezza sul lavoro) e alcuni furti (necessità di tutelare il patrimonio aziendale). In tal senso, le telecamere vengono posizionate in modo tale da riprendere soltanto i punti utilizzati da avventori e clienti del locale, mentre per quanto attiene la zona cassa non viene ripreso il viso del lavoratore, ma soltanto quello del cliente. Il titolare, prima di procedere, comunica tale decisione ai dipendenti interessati dalle attività di videoripresa ottenendone l’assenso all’istallazione delle videocamere. In tal senso, in considerazione delle minime dimensioni della realtà lavorativa, ritiene di non dovere procedere ad alcun accordo con le rappresentanze sindacali né alla richiesta di alcuna autorizzazione da parte della Direzione territoriale del lavoro competente (attività queste invece richieste invia alternativa tra loro dall’art. 4 Statuto dei Lavoratori). Il titolare, successivamente all’installazione, si vede contestare il reato (contravvenzionale) di cui agli artt. 4 e 38 D. Lgs. 300/1970 per avere installato un impianto di videosorveglianza in ambito lavorativo senza accordo sindacale ovvero autorizzazione amministrativa. Fatto che lo coglie alquanto di sorpresa.

Ma se i lavoratori sono d’accordo?

Il titolare ritiene che l’assenso dei lavoratori all’istallazione delle videocamere, specialmente in una realtà lavorativa estremamente piccola, dovrebbe legittimamente sostituire ulteriori accordi di natura sindacale ovvero autorizzazioni da parte delle autorità competenti. Tale posizione sembra rafforzata ulteriormente dal fatto che successivamente all’installazione nessuna opposizione era mai stata presentata da alcuno dei lavoratori interessati. A questo si deve aggiungere che, volendo riassumere le finalità legittimanti l’istallazione di impianti di videosorveglianza in (I) esigenze produttive od organizzative, (II) sicurezza del lavoro, (III) sicurezza del patrimonio aziendale, due di esse – la seconda e la terza – risultano pienamente sussistenti per come descritto più sopra. E le telecamere erano state posizionate proprio in modo tale da rispettare queste finalità.

 

Dura lex sed lex

Sul fronte opposto, occorre considerare che la normativa in materia risulta assolutamente chiara. Secondo quanto prescritto dall’art. 4 L. n. 300 del 1970 l’installazione di apparecchiature dalle quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori deve essere sempre preceduta da una forma di codeterminazione tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori, con la conseguenza che se l’accordo non è raggiunto, il datore di lavoro deve far precedere l’installazione dalla richiesta di un provvedimento autorizzativo da parte della Direzione territoriale del lavoro. Da ciò discende che in mancanza di accordo o del provvedimento alternativo di autorizzazione, l’installazione dell’apparecchiatura è illegittima e viola la normativa penale a tutela del divieto di operare controlli a distanza con impianti, strumenti e apparecchiature non preventivamente autorizzate. Sul punto non risultano eccezioni in tema di assenso dei singoli lavoratori come causa esimente del reato, e questo neppure se tale autorizzazione sia stata preventivamente autorizzata per iscritto (cfr. in tal senso Cass. Pen. Sez. 3, n. 22148/2017).

… Non si fa!

Con riferimento ad un caso analogo a quello descritto, la Corte di Cassazione nel confermare la sussistenza dell’illecito penale ha avuto modo di sottolineare che la procedura di legge prevista dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, è esposta in modo dettagliato proprio in quanto è frutto della scelta specifica di affidare alle rappresentanze sindacali ovvero ad un organo pubblico l’assetto della regolamentazione degli interessi coinvolti dal controllo a distanza. Questo comporta conseguentemente l’esclusione della possibilità che i lavoratori possano autonomamente decidere al riguardo con autorizzazioni di tipo personale e diretto, in particolare tenendo conto del fatto che questi risultano essere i soggetti deboli del rapporto di lavoro subordinato, caratterizzato da una diseguaglianza di fatto che potrebbe comportare comprensibili abusi. Tale situazione di disparità comporta l’inderogabilità della procedura finalizzata all’accordo sindacale ovvero – in caso di mancato accordo – all’autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro. E non sarà pertanto sufficiente l’avere ottenuto il consenso (esplicito ovvero implicito che sia) da parte dei lavoratori interessati. In tal senso, poco importa anche che le telecamere fossero effettivamente funzionanti o meno, posto che la norma si riporta espressamente al momento dell’installazione dell’impianto di videosorveglianza e non del suo effettivo utilizzo (che a quel punto resta a discrezione del datore di lavoro). Si ricorda che quanto fin qui detto riguarda un reato e non la disciplina in ambito di trattamento dei dati personali.

La massima

Traendo una massima da quanto sopra, il consenso del lavoratore all’installazione di un’apparecchiatura di videosorveglianza, in qualsiasi forma (scritta od orale) prestato, non vale a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato i predetti impianti in violazione delle prescrizioni normative.